PREMIO RETE CRITICA 2015 — RUMOR(S)CENA / 24.12.2015
REDAZIONE – Il Premio Rete Critica 2015 è stato assegnato, tra gli altri vincitori
(Compagnia Gli Omini e Puglia Off) anche alla Compagnia Teatro Periferico.
Questa è la motivazione del Premio: "In una nazione che occulta la sua storia e
lascia decadere le ex strutture manicomiali la caparbietà di Paola Manfredi e del
gruppo che con lei ha condiviso il percorso ha voluto “sottrarre all’oblio un’infinità di
vite, di racconti, poesie, creazioni […]. Ma c’è anche un secondo obiettivo: quello di
reclamare un uso partecipato degli spazi degli ex manicomi non ancora ristrutturati.
Oggi molti di essi sono abbandonati e oggetto di vandalismo, mentre potrebbero
essere salvati e in qualche modo riconvertiti in luoghi di cultura)”. A partire dallo
spettacolo Mombello.Voci da dentro il manicomio, un viaggio all’interno del
mondo della follia e dell’internamento (con tutte le sue abiezioni), il percorso ha
toccato nell’autunno 2015 otto ex Istituti psichiatrici in tutta Italia, attraverso una
serie di attività spettacolari e non, che hanno sensibilizzato, attivato e messo in rete
le realtà che operano nei diversi territori".
Dedichiamo questo speciale approfondimento ad una realtà tra le più serie e
qualificate del teatro cosiddetto d’inclusione e prima di dare voce all’intervista
realizzata a Paola Manfredi che è a capo della Compagnia Teatro
Periferico di Cassano Valcuvia, diamo spazio al progetto finalizzato alla messa in
scena dello spettacolo “Mombello. Voci da dentro il manicomio”.
Voci da dentro fa parte di un progetto chiamato Storia e storie, il cui scopo è quello
di ricostruire la memoria di un luogo. Vicino alle Scienze sociali e alla mappatura di
una biografia di comunità, in seguito si è arricchito delle suggestioni mutuate dalla
public art in tema di relazione tra arte, struttura sociale e assetto urbano. Voci da
dentro, lo studio, prima dello spettacolo, ha richiesto due anni di preparazione
durante i quali sono state contattate le associazioni del territorio, tramite un
seminario per formare i volontari e sono stati attivati laboratori teatrali nelle scuole
superiori per sensibilizzare gli studenti al tema del disagio mentale. Incontri con
infermieri, pazienti e medici, sopralluoghi (dalla struttura architettonica di un luogo
deriva l’architettura di sentimenti, di forze, di pensieri che poi vengono
rappresentati. È il genius loci, lo spirito del luogo, il dentro da cui provengono le
voci). Lo spettacolo teatrale è stato poi rappresentato in manicomio, davanti ad un
pubblico composto anche dai testimoni, che sono diventati così protagonisti di una
particolare forma di auto-rappresentazione.
Senza la possibilità di poter osservare i malati, poiché non ci sono più i manicomi,
lo sguardo si è rivolto sui corpi e sui volti disegnati da Gino Sandri, un pittore
morto nell’ ex ospedale psichiatrico Antonini, che ha testimoniato la disperazione,
la rassegnazione, la rabbia o anche la fragilità dei pazienti internati. Gli attori hanno
scelto dai ritratti espressioni facciali e posture e poi ne hanno esteso al proprio
corpo e alla propria voce i connotati, rifuggendo da un lato la caricatura e dall’altra
la semplificazione e lo stereotipo. Per i personaggi femminili, pressoché assenti
nelle opere di Sandri, sono stati utilizzati i ritratti del pittore-psichiatra Romolo
Righetti, esposti al Museo della Mente di Roma.
La regia ha richiesto agli attori di selezionare delle azioni fra quelle ricavate dalle
storie raccolte e catalogate (circa un centinaio), azioni che necessitavano di un
luogo specifico in cui avvenire. Si è creata così una drammaturgia di azioni, una
vita muta, separata dalle parole, corpi staccati dalla voce.
Le azioni sono state scelte tutte, il che equivale a dire che non sono state scelte
affatto, e perciò è impossibile, vedendo lo spettacolo, risalire a un punto di vista
personale, ad una visione idealizzante o al contrario terrificante della follia. Ciò non
significa, naturalmente, che nel lavoro non compaia anche la bellezza, dove c’è (o
l’ironia, o la furia, o la poesia…)
Lo spettacolo racconta la vita all’interno del manicomio, racchiudendo nell’arco di
poco più di un’ora e mezzo decenni di storia. Ma sono le azioni quotidiane a
scandire il tempo, un tempo fatto di niente, di camminate interminabili lungo i
corridoi e riempito da silenzi e da urla improvvise, ma anche di punte estreme di
violenza, di incontenibile disperazione e di disperata impotenza. Lo stesso metodo
usato per le azioni è stato utilizzato con le parole.
Dopo essere stato rappresentato più volte Mombello – Voci da dentro il
manicomio ha dato origine al progetto CASE MATTE (2350 chilometri percorsi,
1760 spettatori coinvolti). Un viaggio di due mesi in alcuni vecchi ospedali
psichiatrici, ormai chiusi, nasce con l’obiettivo di stringere legami con gruppi e
associazioni impegnati a mantenere viva la memoria di quei luoghi, per raccogliere
storie e conoscere la realtà delle molte persone che hanno vissuto là dentro,
persone che potrebbero essere intercambiabili, tanto simili erano le condizioni di
vita nei manicomi, diffusi ovunque nel Paese, ma che invece hanno tutte un volto,
un nome e una storia propria.
Soltanto negli archivi dell’ex ospedale psichiatrico Antonini sono conservate poco
meno di 84.000 cartelle cliniche, dal 1879 al 1999. Si stima che, negli 88 manicomi
italiani, siano state rinchiuse centinaia di migliaia di persone, forse addirittura
qualche milione, talvolta per una vita intera, al punto che si può parlare di “ergastoli
bianchi”. Un popolo caduto nell’oblio, un pezzo di storia dell’Italia, di cui si sa
ancora poco o nulla. Inoltre, da quando, grazie alla legge 180, in Italia i manicomi
sono stati chiusi, i complessi che non sono stati riconvertiti in ospedali o in luoghi di
cultura, sono stati lasciati cadere a pezzi e in molti casi sono stati oggetto di
speculazione edilizia.
Paola Manfredi ci spiega come ha vissuto l’esperienza di portare lo
spettacolo in diverse città, tra le quali sedi di ex manicomi, e che risultati ha
prodotto?
"Lo spettacolo è stato rappresentato sempre all’interno degli ex manicomi, tranne
all’Aquila dove l’ospedale psichiatrico è ancora inagibile. Un primo risultato è stato
quello della riappropriazione, seppur simbolica, da parte della cittadinanza di un
luogo così importante nella storia della loro città. In alcuni casi, per esempio ad
Aversa, il pubblico è entrato per la prima volta dopo anni nello spazio vuoto e
abbandonato della Maddalena. Abbiamo conosciuto molte persone, soprattutto
giovani (fotografi, reporter, artisti) impegnati nella ricostruzione della memoria.
Alcuni di loro hanno fatto e stanno facendo un lavoro prezioso di documentazione
dello stato attuale delle strutture e di censimento dei gruppi e le associazioni che
lavorano attorno a questi spazi.
Per esempio Giacomo Doni che da anni fotografa e raccoglie storie di
manicomi. Inaspettatamente, agli eventi si sono accompagnate azioni di denuncia:
denuncia del costante processo di rimozione di quanto accaduto in cento anni nelle
case di internamento (la trascuratezza nella custodia delle cartelle cliniche, la
vendita a privati di opere come i graffiti di Oreste Nannetti), denuncia delle
speculazioni edilizie, denuncia dei sistemi coercitivi e punitivi ancora oggi utilizzati
nelle psichiatrie degli ospedali e nelle cliniche private.
Dal punto di vista della compagnia, il viaggio ha rappresentato una possibilità di
portare lo spettacolo in molte città, da nord a sud, senza finanziamenti istituzionali,
(a parte un piccolo contributo di Fondazione Cariplo), ma solamente grazie al
contributo raccolto con un finanziamento dal basso. Mi ero stancata di chiamarlo
festival. Volevamo che lo spettacolo arrivasse ad un grande pubblico. E questo è
accaduto. Più di quattromila spettatori lo hanno visto sino ad oggi. Ci dicevano che
la tematica era ormai superata e che al pubblico non interessava. L’uscita in questi
giorni del film sul caso di Mastrogiovanni dimostra invece che l’urgenza c’era e c’è
ancora oggi."
Oggi giorno su come viene affrontata la malattia o il disagio psichico, vista
dallo sguardo di chi fa del teatro, uno strumento privilegiato, come viene
valutata?
"Parlare di disagio psichico è difficile. Noi non ne abbiamo le competenze. Non è
il nostro lavoro. Ma posso dire ciò che abbiamo visto. Anche esperienze positive: la
Tinaia i laboratori espressivi all’ex ospedale psichiatrico di Quarto a Genova, la
fattoria Fuori di zucca sulle terre dell’ex manicomio di Aversa, tante realtà di lavoro;
tutte situazioni dove i pazienti trovano un posto dove stare e stare bene. Oppure i
gruppi di mutuo aiuto all’Aquila, alcuni composti da soli pazienti, come quelli che
gestiscono la radio. Le terapie relazionali mi sono sembrate un grande aiuto. Se
invece la domanda è pensata su quale sia lo sguardo di chi fa teatro sul tema della
della follia, certo il nostro lavoro ha a che fare con la follia. Perché il teatro mostra
ciò che la realtà nasconde, i dettagli che altrimenti sfuggono, quello che sta dietro.
E poi nella follia la logica non è quella razionale, è imprevedibile, come è quando
vai in scena."
Che risultati avete conseguito con la messa in scena dello spettacolo?
Un’esperienza significativa tale da chiedere quali sono i significati al di là del
merito artistico conseguito?
"Per me e per gli attori l’esperienza è stata fortissima. Ogni volta abbiamo
adattato lo spettacolo a spazi totalmente diversi, anche se si trattava sempre di
corridoi. Qualche volta erano porticati, altre volte corridoi di reparti criminali, come
al Padiglione Lombroso dell’ex manicomio di Reggio Emilia. Adattarci è stato un
vero allenamento. Lo spettacolo ha acquistato sempre più la potenza giusta. E poi
lo spettacolo è stato visto da molti giovani che per la prima volta hanno conosciuto
qualcosa di cui non avevano mai sentito parlare. E pensare che negli 88 manicomi
italiani, sono state rinchiuse centinaia di migliaia di persone, forse addirittura
qualche milione! In ogni caso ne sono venuti a conoscenza non studiandolo su un
libro, ma assistendo ad uno spettacolo che li vedeva “dentro”. L’empatia è il canale
attraverso cui ho potuto raccontare l’esperienza di questo popolo dimenticato."
Che Italia avete incontrato?
"Un’Italia, soprattutto al sud, molto vitale. Certo noi abbiamo girato per manicomi,
quindi abbiamo incontrato una parte d’Italia molto particolare: quella che si muove
intorno a queste realtà. Artisti visivi, scultori, pittori, psichiatri, operatori, psicologi,
gruppi di occupanti, giornalisti, semplici cittadini".
Come hanno reagito gli spettatori e se è possibile quali sono le differenze
riscontrate da città a città ?
"Gli spettatori hanno sempre ascoltato con grande attenzione, anche quando da
ascoltare con le orecchie non c’era poco o niente (il secondo tempo è
completamente muto). Molte persone si sono fermate a parlare con noi, altri ci
hanno scritto. In alcuni casi, come quello di Aversa, il pubblico, che non aveva la
minima idea di quello che avrebbe visto, né mai avrebbe pensato di doversi sedere
a terra all’umido (ha piovuto per tre giorni!), alla fine si è alzato tutto in piedi ad
applaudire. E poi c’è un’altra cosa. Il pubblico viene perché è interessato
all’argomento, al luogo, perché ha avuto, o ha, un familiare, un amico malato. È un
pubblico sensibile. Ma che non è abituato ad un teatro contemporaneo. Eppure ne
gode. Inconsapevolmente. E questo è bellissimo".
Quali sono i progetti futuri dopo questa esperienza?
"Il prossimo anno pensiamo di andare in Sicilia e poi forse fuori Italia. Il progetto
crescerà con il tempo".
Se doveste consigliare l’approccio a questo genere di teatro quali consigli si
sente di dare?
"Viaggiare, conoscere, approfondire, stringere relazioni, ascoltare, ascoltare,
lasciarsi attraversare."

