MOMBELLO — “TEATRI DELLE DIVERSITÀ” 66/67 / AGOSTO 2014
Forse ce lo siamo dimenticati, ma in Italia, non solo nella storia della psichiatria, ma
anche del costume, esiste un prima e un dopo Franco Basaglia. Fuori del nostro
paese, la salutare scossa impressa da quel geniale, quasi anarchico psichiatra non
si è verificata, e sussistono ancora situazioni che, almeno in parte, da noi sono
ormai superate. Paola Manfredi e Loredana Troschel, con Mombello – Voci da
dentro il manicomio hanno costruito uno spettacolo che, senza cedere a tentazioni
declamatorie, e scansando la trappola del didascalico, ci parla di quel “prima”. Lo
spettacolo nasce da un lungo, attento lavoro di ascolto di utenti ed operatori che
hanno vissuto o lavorato a Villa Pusterla, un manicomio – come si diceva un tempo
– che si trovava a Mombello (una frazione di Limbiate, presso Milano), chiuso nel
’95 a seguito della riforma voluta appunto dalla cosiddetta Legge Basaglia. Il
progetto di documentazione e di costruzione drammaturgica e registica è durato
due anni. Uno degli elementi di originalità di questo prodotto teatrale consiste
nell’essere stato pensato per rappresentazioni in spazi non tradizionali: ospedali,
scuole, una caserma dismessa. È stato rappresentato anche al Teatro Comunale di
Limbiate, con buon successo di pubblico, ma altra è la suggestione che il lavoro ha
sortito quando è stato proposto nei locali stessi dell’antico manicomio, dove quegli
ambienti sono sembrati resuscitare le presenze che li avevano abitati per oltre 130
anni. Gli spettatori erano disposti su un’unica fila di sedie, addossate alla parete di
un corridoio pavimentato da piastrelle di graniglia, a scacchi diagonali. Di fronte,
una serie di porte, le antiche celle, dalle quali emergeva una partitura di voci, di
grida, di rumori indistinti. Da quelle porte esce e rientra una varia umanità:
ricoverati, infermieri, un’assistente sociale che, con visibile sconcerto, si avvicina
forse per la prima volta a quella realtà. Il gioco teatrale si articola in una molteplicità
di azioni che non è necessario seguire nella sua interezza, che riproducono il flusso
minimalista della vita reale: scene e controscene connotate da un iperrealismo che,
nel suo insieme, assume una dimensione surreale. In questo ripetitivo dipanarsi di
un tempo senza scosse, in una sorta di non luogo, si fa sempre più incerta la
delimitazione tra lo spazio del pubblico (gli osservatori) e quello degli attori (gli
osservati). Ma, a tratti, il pigro scorrere del tempo viene interrotto da scoppi di
concitazione, da brutali scatti di follia. Il valore sociale dell’operazione consiste
nell’esplorazione della diversità, di una logica altra, propria della malattia mentale:
una logica che tendiamo a rifiutare, per paura, per un nostro personale disagio; ma
anche nella denuncia della patente inevitabile irrazionalità e violenza insita nel
trattamento psichiatrico tradizionale. Un messaggio che sembra essere stato colto
(non meno di duemila spettatori che hanno assistito alle 14 repliche, con lunghe
liste d’attesa) da un pubblico che, evidentemente, non è interessato
esclusivamente al football e agli amorazzi del Grande Fratello, un risultato
perseguito con un utilizzo discreto e raffinato del puro linguaggio e della
professionalità teatrale.
L’impostazione registica e la cifra attorale (nove gli interpreti, fra i quali anche gli
autori della drammaturgia) rivelano, a monte, un’osservazione e uno studio attento
e partecipe della fisicità e dei registri vocali propri della follia. Ciò ha consentito agli
attori di introiettare i codici comportamentali ed espressivi, fino ad una
impressionante mimesi gestuale e fisiognomica, che rifiuta le scorciatoie e gli
stereotipi. E il pubblico arriva a domandarsi se, in scena, non ci sia anche qualche
antico ospite del manicomio.
Un’esplorazione originale dello scivoloso, impervio terreno del disagio mentale, di
grande qualità artistica, tanto più apprezzabile perché simpatetica e rispettosa di
quel mondo misterioso.

