MOMBELLO — A TEATRO / 25.8.2014

MOMBELLO. VOCI DA DENTRO IL MANICOMIO DEL TEATRO PERIFERICO E IL VANGELO SECONDO MATTEO DI VIRGILIO SIENI
di Oliviero Ponte di Pino

[…] Diverso il metodo di lavoro seguito dal Teatro Periferico per Costruire Mombello. Voci da dentro il manicomio (che forse sarebbe più corretto sottotitolare “Gesti dal manicomio”). L’“Antonini” di Mombello-Limbiate era uno dei grandi ospedali psichiatrici italiani. Nell’arco di 130 anni circa, prima della chiusura in seguito alla legge Basaglia (nel 1978), ha ospitato circa 100.000 pazienti – ma sarebbe meglio parlare di “internati” – divisi “secondo il comportamento in Epilettici, Tranquilli, Sudici, Semi-agitati, Agitati, Criminali”. L’ospedale di Mombello era una vera e propria città, poi svuotata dei suoi abitanti e abbandonata al degrado: un buco nero nel territorio e nell’identità collettiva.
Per recuperare la memoria di questo luogo, oltre allo studio delle rare fonti, è stata condotta in primo luogo una ricerca sul campo, condotta con metodi ripresi sia dalla sociologia sia dallo studio della storia orale, ampliando la metodologia messa a punto per I fiori nella ghisa (2009), spettacolo dedicato alla storia della Ceruti, una fabbrica di Bollate chiusa alcuni anni fa.
Un gruppo di cittadini, opportunamente preparati, ha condotto una serie di colloqui (della durata di un’ora-un’ora e mezza) con pazienti, parenti, medici, infermieri, assistenti sociali, cittadini…
La seconda fase è stata invece tutta teatrale, affidata a un gruppo di professionisti: la regista Paola Manfredi, la drammaturga Loredana Troschel, lo scenografo Salvatore Manzella e gli attori Giorgio Branca, Elisa Canfora, Antonello Cassinotti, Alessandro Luraghi, Laura Montanari, Raffaella Natali, Loredana Troschel, Lilli Valcepina, Dario Villa. A partire dal materiale raccolto, da un lato è stato costruito un montaggio testuale, un vero e proprio copione a più voci. Dall’altro sono state isolate le descrizioni di una serie di azioni, che hanno costituito la base della partitura gestuale degli attori, combinandosi con le immagini che ciascun attore aveva scelto a partire dai ritratti dei pazienti, opera di un pittore Gino Sandri, ricoverato e morto Mombello.
Anche nel caso di Mombello c’è una programmatica scissione tra ciò che si sente e ciò che si vede, uno scollamento tra “video” e “audio”. Il lavoro, allestito in un corridoio che dunque allarga lo sguardo dei testimoni e al tempo stesso li avvicina agli interpreti (nel caso specifico all’ospedale di Cittiglio), è diviso in due parti. La prima vede gli attori interpretare la drammaturgia testuale ricavata montando le parole dei testimoni; nella seconda, dopo l’intervallo, è la volta della drammaturgia delle azioni e dei gesti, in un montaggio senza parole che punta a restituire l’atmosfera dell’ospedale e l’angoscia e il dolore dei pazienti. La scelta registica evita programmaticamente di dare (o imporre) un giudizio su questa “danza della follia”, per lasciare questa responsabilità allo spettatore-testimone.