COMBATTENTI — RUMOR(S)CENA / 9.4.2016
MILANO – È una drammaturgia atipica, questo “Combattenti” di Renato Gabrielli.
Se del drammaturgo ricordiamo i toni più surreali di “Questi Amati Orrori” o la
vicenda complicata e ricca di risvolti di psicologici de “La donna che legge”, questo
testo può lasciare perplessi. La storia è quella di uno dei tanti appuntamenti
mancati, che, qui sul versante affettivo, ma spesso capita anche in altri ambiti della
vita, costellano le esistenze un po’ di tutti, specie se – com’è il caso dei due
protagonisti – si sia raggiunta un’età matura. Quando gli anni si declinano in “anta”,
non è così inusuale trovarsi ad aggiungere ancora un’altra spunta all’elenco dei
“fallimenti”. Capita così a questi “Combattenti”, che, a onor del vero qui è solo il
nome di una palestra per pugili. Sono i nuovi precari emotivi, lavorativi ed affettivi
della società contemporanea. Sono i quaranta/cinquantenni di oggi, che, abbacinati
dai lustrini degli anni ottanta, si sono invece trovati a fare i conti con gli anni
novanta e poi col nuovo millennio. Inaugurato dallo spauracchio del bug che
avrebbe dovuto mandare in tilt il crescente astro di una tecnologia che si
preannunciava onnipotente, il ventunesimo secolo se ha sì in parte mantenuto la
sua promessa in termini di abbattimento dei secolari limiti di spazio e tempo, ha
altresì mostrato lo stigma di liquidità e volatilità, dando il via ad un sistema, in cui
tutto l’easy, free e social di fatto spesso altro non è che lo zucchero con cui indorare
la pillola di una mancanza di radici e dogmi indiscutibili; e chi lo sa se questo sia
davvero soltanto un bene.
La trama racconta di Giudy “la furia” e Raffaele: famosa ex boxeuse, la prima, suo
tanto devoto quanto invisibile fan, il secondo, s’incontrano sul ring della palestra di
lei. Lo scontro è quello fra una donna forte, sarcastica e a tal punto sicura di sé, da
risultare sprezzante, e un uomo improbabile, separato, impacciato, che dissimula la
propria goffaggine in una proattività commerciale, che sa quasi di spavalderia.
Un lungo incontro a più riprese, ben reso dalla regia che gioca coi suoni del ring, in
cui i due si studiano, si saggiano, si azzuffano, a tratti, per poi tornare ai propri
angoli; e di nuovo il gong di un altro round e di un altro ancora, in un crescendo,
che mescola allenamenti e vita, sodalizi lavorativi e scaramucce affettive, perché “la
boxe e la vita sono la stessa cosa”, dice Raffaele. Certo, ciascuno dei due è un
mondo ed ha un mondo attorno a sé. Così se la cugina/segretaria di Giudy
costantemente le ricorda quella vita “normale” – di moglie e di madre -, che a lei
non è data, specularmente il giovane rampante e multitasking datore di lavoro di
Raffaele e il collega suo coetaneo, ma anche il figlio o la ex moglie, ci parlano del
complicato equilibrismo, entro cui è costretto a giostrarsi l’uomo, fra sconforto ed
euforici scoppi di disarmante entusiasmo. Fino alla fine: un epilogo se non
scontato, quanto meno prevedibile, una volta delineata la cifra di combattenti, sì,
ma di quelli a testa bassa e a muso duro, per i quali difficilmente potrà mai brillare
altro che la luce di una normalità sudata e che non fa sconti.
E come si rende tutto ciò sulla scena? La regia di Paola Manfredi sceglie di farlo
entro le corde scarlatte di un ring, in cui costantemente ambientare il dipanarsi della
vicenda. Cavalcando la metafora boxe e vita già sapientemente modulata da una
scrittura di scena attenta nel pescare dall’ambito semantico del pugilato così come
da quello speculare del business, i due s’incontrano, scontrano, vivono ed evolvono
entro quel perimetro. È un cambio d’abiti, continuo e a vista del pubblico, a
segnalarci il cambio di scena, mentre la frontalità quasi costante degli attori alla
platea suggerisce un’incomunicabilità di fondo, che travalica i goffi tentativi
d’approccio reciproci e le scaramucce spesso più virtuali e a colpi di mail, evitando
quel contatto fisico che ci si aspetterebbe da due lottatori corpo a corpo. È che non
è così: non sono certo figure eroiche o agonistiche, i due protagonisti; due antieroi,
semmai, in senso moderno, ciascuno trincerato nella propria grammatica,
efficacemente restituita da un mix sound che, riproducendo i suoi del ring, dell’invio
della mail, o della vibrazione del cellulare, con meccanismo mentale primordiale
immediatamente ci trasportano a quelle realtà. La parola è scelta, precisa, a tratti
ironica, divertente e poetica, anche se scorre via leggera, senza troppo indugiare
su una complessità psicologica, più spesso accennata, che indagata. Quasi
sempre i coprotagonisti vengono evocati attraverso l’irrompere di una telefonata:
giusto poche battute ed ecco che reazioni inconsulte dell’uno o dell’altra ne
tratteggiano ancora un’altra faccia. Mirabile il “pas de deux”, in cui, quasi alla fine,
le telefonate dei due s’intersecano con una precisione di scrittura tale da farle
confluire come in una comunicazione unica: rispondendo al destinatario è come se
ciascuno rispondesse anche all’altro, in un fraseggio che sembra un canto di
corteggiamento destinato a confluire in un assolo a due voci.
Ma forse sono troppo lontani, in fondo, questi due combattenti. Troppo distratti,
inefficaci e profondamente spauriti al punto da risultare solipsistici. Sempre a un
passo soltanto dal buttare il cuore oltre l’ostacolo, se sono sì disposti a rischiare sul
piano professionale, non così su quello affettivo, dove indugiano, rimandano,
ritardano, sviano, lasciano che ritmo e tensione sfumino, in un rosario di occasioni
mancate. In scena recitano Lilli Valcepina e Giorgio Branca ad avere l’onere
d’incarnare questi due e forse quella generosa imprecisione vitale ne contagia un
po’ la performance.

