CASE MATTE — DOPPIOZERO / OTTOBRE 2015
Teatro documento violento quanto umano è Mombello – Voci da dentro il
manicomio, realizzato da Teatro Periferico in collaborazione con la
compagnia delleAli. Dopo due anni di repliche in scuole, caserme o carceri, lo
spettacolo nato dalle storie di malati, medici, infermieri, assistenti sociali, che
vissero e lavorarono all’interno dell’“Antonini”, l’ex ospedale psichiatrico di
Mombello, frazione di Limbiate, vicino Milano, è stato il passo attorno a cui si è
costruito Case Matte. Il cammino nei vecchi manicomi (questi dinosauri, come li ha
definiti Giuliano Scabia nel convegno Case matte. Il teatro necessario), oggi chiusi
e in molti casi minacciati dalla speculazione edilizia, ha toccato, tra settembre e
ottobre, Limbiate, Genova, Reggio Emilia, L’Aquila, Aversa, Roma, Volterra e
Firenze. Privo di finanziamenti pubblici, il progetto si è retto con il sostegno di
associazioni, gruppi e comuni cittadini attraverso un crowdfunding online, insieme
al contributo della Fondazione Cariplo, e ha vinto il Premio Rete Critica 2015,
sezione organizzazione/progettualità. “Uno stimolo a continuare sulla strada
intrapresa – commenta Paola Manfredi, regista e direttrice artistica di Teatro
Periferico, di ritorno da Vicenza e dal convegno Blasphemìa. Il teatro e il sacro del
7 e 8 novembre, al termine del quale è stato assegnato il Premio – per noi e per
tutti coloro che lottano quotidianamente per salvare la memoria dei luoghi e dei
malati”.
Insieme a Mombello, compagni di viaggio sono stati i Chille de la
Balanza (compagnia che risiede nell’ex ospedale psichiatrico di San Salvi a
Firenze, con cui è stato ideato l’intero tour teatrale), che hanno passeggiato
in C’era una volta… il manicomio, teatro di narrazione tra memoria ed eredità a
partire dalle realtà manicomiali; Gigi Gherzi ha letto, raccontato e improvvisato
orientandosi con l’Atlante della città fragile, il suo libro edito da Sensibili alle foglie:
pericolose avventure, strazi sottili, confessioni e canzoni di esistenze che portano al
parco del più grande ex ospedale psichiatrico della città. E poi con tante persone,
associazioni ed enti che, in modi diversi, operano per salvare dall’oblio i reclusi nei
manicomi italiani, dando voce a tutti quelli che subirono veri e propri ‘crimini di
pace’.
Il paese nel paese
Alle porte di Milano è esistito per 130 anni, dal 1865 al 1995, uno dei più grandi
manicomi d’Europa. Quasi 100.000 pazienti sono passati dall’“Antonini”. Un
paesaggio umano, una geografia poetica che per Teatro Periferico comincia e
finisce nell’oscurità, istituzione totale che rende tutti ugualmente invisibili, a se
stessi e agli altri, matti, infermieri, attori, spettatori. Non (poter) vedere, sottrarci allo
sguardo, rende concreto il vuoto e il buio dell’infermità e della dimenticanza.
Mombello è un allora e un dentro che la compagnia residente dal 2009, grazie al
Progetto Etre, nel teatrino liberty di Cassano Valcuvia – piccolo centro in provincia
di Varese al confine con la Svizzera, in una zona circondata da laghi e montagne –
abita per il tramite di un accurato impegno nella ricostruzione della memoria e nella
restituzione artistica, in un processo sociale condiviso.
“Abbiamo preparato con l’aiuto di una formatrice, Beatrice Carmellini, un gruppo di
cittadini volontari che hanno intervistato testimoni diretti del periodo in cui il
manicomio di Mombello era attivo: infermieri, assistenti sociali, medici, pazienti”
spiega Manfredi. “La metodologia utilizzata è quella della scrittura biografica
concepita da Duccio Demetrio, che nel nostro caso non prevedeva la produzione di
un libro-raccolta di storie personali, bensì proprio la costruzione di uno spettacolo
teatrale”.
Ogni luogo è ‘unico’, così come ogni persona è un ‘ciascuno’: per questo la
compagnia lascia nella sua alterità ciò che è altro da sé, evitando l’impazienza di
assimilarlo a ogni costo, di colonizzarlo con il proprio senso, la propria visione o
interpretazione. “Da tutte le interviste raccolte ho preso ogni azione, ogni parola
detta e riferita dagli intervistati” prosegue Manfredi. “Insisto, non ho voluto
selezionare le parole e le azioni più ‘belle’ o più ‘efficaci’ o più ‘poetiche’, ma le ho
tenute tutte, indistintamente, per dare un quadro il più possibile completo della
cruda realtà manicomiale. In Mombello niente è inventato, niente è frutto di
fantasia. Persino i suoni, i rumori e i silenzi, sono entrati nel lavoro, sia nella banda
sonora curata da Luca De Marinis (non ci sono musiche nello spettacolo), sia in
quello che accade in scena”.
Echi di chiavi suscitano una luce fioca, smunta, su un corridoio stretto, tre porte
sorvegliate da due infermieri e poco dopo da un’assistente sociale, barlume di
solidarietà, tolleranza e comprensione nella notte dei lunghi lamenti. Forse la
personificazione stessa dell’empatia, della partecipazione dell’azione teatrale alla
natura del manicomio. I matti sono ancora incorporei, presenze assenti, ossessioni
uditive: i contenuti in cella e i contenuti delle celle. Ascoltiamo Mombello con gli
occhi bassi, colpevoli, come per vergogna del destino che ci ha messo da questa
parte delle porte: la compresenza reale nel medesimo luogo e lo scontro tra la
scelta nostra (volontaria) di essere qui e la detenzione altrui (involontaria) è la
chiave di una partecipazione emotiva che è diversa dall’immedesimazione
catartica, è la presa di coscienza di un alfabeto di richieste di aiuto che non
abbiamo saputo riconoscere prima e al cui annientamento ora assistiamo immobili
e impotenti.
“Non può esserci un intento a priori, un’operazione a monte: voglio denunciare
questa condizione, voglio scioccare il pubblico…” precisa la regista. “C’è prima di
tutto la materia, cioè le testimonianze, le storie personali, i vissuti dei ‘ciascuni’; e
sono tutti diversi, tutti con le loro contraddizioni, con la loro mescolanza di
sofferenza, gioia, voglia di vivere, disperazione, desiderio di rivincita, orgoglio per la
propria professione… Ho capito che quando non hai un prodotto preconfezionato,
anche il pubblico, quello vero, quello non irreggimentato, quando lo incontri è
un’incognita, una sorpresa. Personalmente, non mi sarei mai aspettata la presenza
di così tanti giovani, universitari per lo più, con la loro fame di emozioni, che ti
vengono a dire: abbiamo voglia di commuoverci per le vite degli altri, non solo per
le nostre”.
Cosa rimane dei matti
Si apre una porta, uno spiraglio sui ‘no’ farmacologici che annullano qualsiasi
capacità di volere, e da ombre dietro i vetri i matti diventano ciglia aggrottate, tic e
camminate spezzate, nella luce verde come i muri ora scrostati, vandalizzati,
dell’ex ospedale psichiatrico milanese. Le donne con la divisa grigia, gli uomini in
maglietta bianca, scarpe grosse ai piedi, scarpe che sono ciabatte, perché qui non
c’è il fuori, l’esterno, l’aperto, le chiavi arrivano dappertutto e chiudono ogni via e
vita oltre la malattia. Si guardano, ma non si vedono, è un’epifania ellittica perché
questo gruppo di speranze disintegrate rappresenta altro da quello che appare
nella sua superficie dissonante: “andare da qualche parte, uscire e basta, perché ci
hanno abbandonato”.
“Ho selezionato una serie di ritratti di internati fatti dal pittore Gino Sandri, anch’egli
ricoverato e morto a Mombello”, chiarisce Paola Manfredi a proposito del corposo
lavoro fatto con e sugli interpreti, Giorgio Branca, Elisa Canfora, Antonello
Cassinotti, Alessandro Luraghi, Laura Montanari, Raffaella Natali, Loredana
Troschel, Lilli Valcepina, Dario Villa, sorprendenti per sensibilità, precisione e cura
della naturalezza. “Poi ho chiesto agli attori di scegliere alcuni di quei volti, di quei
corpi disegnati, alcune di quelle posture, e a partire da quelle scelte hanno cercato
una camminata, una parlata, un gesto ossessivo. Ma tutto è come scaturito da sé,
non c’è stata una decisione a tavolino. Ogni volto ritratto era una maschera che li
conduceva a un carattere, a una personalità che dovevano svelare e far vivere.
Hanno così creato personaggi che sono in realtà la sintesi di più persone realmente
esistite e che a Mombello hanno vissuto, sofferto, atteso”.
Il dentro si capovolge nel davanti al secondo atto di questo documentario vivente,
presepe tragico e criminale di natività lasciate al freddo e al gelo dei propri
fantasmi. I matti adesso sono tutti nel corridoio, suddivisi fra un televisore, un
tavolo, una panchina, un letto, degli armadietti. In mezzo sta lo sportello
dell’accettazione, la portineria, ai lati i momenti del lavarsi, del mangiare, del
dormire, dello stare in giardino. Si sfoglia un giornale sbiadito, un numero di “Oggi”
degli anni ’50-’60. Il dottore passa e si ferma solo per farsi strapazzare il camice
dall’infermiera. La vita degli altri scorre, quella degli internati è una crisi continua,
punteggiata di pochi sorrisi, che rendono il gelo ancora più pungente. E quando
anche le parole vengono meno, ci pensa la televisione, le soap opera, una agorà
refugium peccatorum, una giostra di anestetiche luci colorate che riesce a
riappacificare con gli ospiti nella testa, eccetto quelli che hanno bisogno di essere
legati nudi alla rete del letto per ritrovare a forza un’incostante tranquillità.
Nell’allucinazione verde del mattino, ragione di vita per gli infermieri e ingiustizia di
morte per i reclusi, il processo di mediazione tra passato e presente e tra Storia
maiuscola e ufficiale e storia minuscola e privata, è una voce di dentro restituita alla
dignità e alla responsabilità dell’ascolto. “La testimone più importante – conclude
Paola Manfredi – è stata Emilia Gandini, che purtroppo ci ha lasciato ormai quasi
due anni fa. Quando l’ho conosciuta e intervistata viveva in una comunità in
Piemonte: era lucida, pur avendo vissuto tutta la vita a partire dall’età di tre anni a
Mombello. Emilia non era matta, ma figlia di una madre povera in tempo di guerra e
dunque come tanti era finita in manicomio per necessità. Dentro, ha subito molte
delle cose che si vedono nello spettacolo, vere e proprie torture. La sua richiesta,
fattami dopo avermi raccontato la sua storia, è stata: “Dìghel a tücc”, raccontalo a
tutti. Questo ho cercato di fare”.

