ABDOULAYE E MAMADOU NON SONO MORTI — BERGAMO NEWS / 19.5.2025
Scanzorosciate — “Almeno vediamo le stelle”. Una questione di sguardi che
“sconfinano”, che si perdono tra l’orizzonte del mare e quello di una memoria intrisa
di dolore. Sono gli sguardi di “Abdoulaye e Mamadou non sono morti”,
spettacolo di Dario Villa, proposto domenica 18 maggio al teatro di Rosciate
durante la prima giornata della sesta edizione di Up to You, festival di spettacolo
dal vivo ideato da Qui e Ora Residenza Teatrale e organizzato da ragazze e
ragazzi under 30, in collaborazione con Bergamo per i Giovani e Risonanze
Network.
Uno spettacolo che “sconfina” (come dal tema del festival), in direzione della
sofferenza dell’altro, tracciando il viaggio di chi, dall’Africa, cerca un futuro migliore
in Europa. Uno spettacolo che mostra un dramma personale, quello scritto da Dario
Villa con la regia di Paola Manfredi (tratto dal libro autobiografico “In Inferna”), con
protagonista Abdoulaye Ba, ad interpretare sé stesso, giovane senegalese in fuga
da Dakar verso l’Europa. Sulla scena, lo ritroviamo già su un barcone alla deriva
nel Mar Mediterraneo, una parte in legno, che ne ospita speranze, sconfitte e
desideri. Con lui, l’amico d’infanzia Mamadou (interpretato da Siaka Conde), che
Abdoulaye, a causa della febbre, crede sia lo spirito del padre, morto quando lui
aveva 13 anni. Due persone che si fanno idealmente carico delle testimonianze di
altre 128 presenti con loro sulla barca. Storie e testimonianze di disperazione, che il
protagonista esemplifica nella propria storia, “per onorare la memoria di chi non ce
l’ha fatta e riposa ‘accanto alla strada’ o nel fondo del mare”.
Un racconto che si fa performance, facendo della parola significante per immagini
che rimangono impresse. Immagini che raccontano di ingiustizie e disuguaglianze,
quelle di flussi migratori infiniti che portano con sé atti di violenza a cui è difficile
credere.
Eventi che vengono rielaborati, prima nella scrittura (attraverso il libro), poi nella
lettura e, infine, nella recitazione. Eventi tragici, ricordi d’infanzia, deliri della mente:
la testimonianza di Abdoulaye si muove di continuo tra paura ed oblio. Buona allora
la scelta di Siaka Conde, ideale spalla capace di gettare semi di ironia (per quanto
possibile) all’interno del dramma.
La voce incerta, spezzata dalla sofferenza, del protagonista viene idealmente
amplificata dal canto misterioso ma carico di poesia di Camilla Barbarito. Una
voce che “sconfina” e che fa “sconfinare”, capace di creare atmosfere ed
immergere tutta la scena all’interno di una cultura subsahariana pulsante di dolore
e, per questo, di vita. Barbarito amplifica il lavoro sul suono anche attraverso un
bastone della pioggia ed uno scacciapensieri, strumenti che immergono in un
realismo magico che si fa persona grazie all’Angelo della Morte interpretato
dall’attrice e danzatrice Bintou Ouattara. Un angelo della morte che si allontana
dal suo significato occidentale per farsi medium accompagnatore, capace di donare
vita oppure distruggere, di tornare alla Memoria per farla (forse) dubitare, in un
viaggio della speranza che può trasformarsi in un viaggio nell’aldilà.
Una danza lenta che, nel suo incedere, si fa movimento spirituale, portandosi al di
là dell’hic et nunc, gesti ancestrali dei riti di passaggio. Un realismo magico che
rimanda anche, per ambientazioni e riferimenti, ad “Io capitano” di Matteo Garrone.
Storie simili di identiche sofferenze, storie che rivendicano però una propria,
singola, importanza. Se nel viaggio della speranza i conflitti si appianano e si
pregano allo stesso modo diverse divinità per unione d’intenti, lo spettacolo invita a
non dimenticarsi di come, dietro ad ogni volto e ogni corpo, ci sia un nome, una
storia. Una maschera bianca dona però ad Abdoulaye una “faccia da cancellato”,
un’identità smarrita, sia nel rapporto con il paese d’origine, sia nello sbarco in
Europa. Così, nel narrare la storia di chi è riuscito a portare a termine il viaggio
verso un futuro migliore, l’autore Dario Villa si presenta sul palco per leggere i
nomi di alcune delle 52.760 persone presenti in “The List”, l’elenco delle persone
decedute durante le migrazioni dall’Africa all’Europa. Una lettura che trova nel
tempo il proprio valore per chi, ad un nome, non riesce ad associare un volto, una
storia, una vita.
La barca spezzata diventa allora uno schermo, dove i nomi scorrono, inesorabili,
dove la materia finita si fa strumento per una riflessione da tempo sempre più
necessaria. Il riconoscimento dei corpi, l’associare a questi una Storia,
l’identificazione dei morti “dà sollievo ai vivi”. Un sollievo, per i parenti, di un dolore
a cui poter dare una forma. Per gli altri, serve allora un necessario sconfinamento
dello sguardo. Altrimenti non resta che chiedersi: “quale sollievo?”.

